Per quelli della nostra generazione (classe ‘69) appassionati di sport, il nome di Davide Tizzano evoca grandi emozioni: canottaggio, vela, Olimpiadi, forza fisica, cuore, determinazione, coraggio, sogni e grida di gioia a squarciagola che si unirono a quelle di tale Giampiero Galeazzi in una delle telecronache televisive tra le più amate di sempre dagli italiani e che personalmente metto sullo stesso piano di quella con cui tale Nando Martellini raccontò la corsa irrefrenabile di Marco Tardelli dopo il secondo goal alla Germania nel Mundial di Spagna ’82. Ma chi è, si chiederanno i più giovani, Davide Tizzano? E’ un ragazzone napoletano di 53 anni, alto un metro e novanta per cento chili, canottiere due volte Medaglia d’Oro Olimpica, due volte campione mondiale, due volte vice campione mondiale, una volta vice campione europeo e più volte campione italiano. Brillante manager e dirigente sportivo, scrittore, impegnato nel sociale, oggi Davide dirige egregiamente il C.O.N.I. di Formia dal quale continuano ad uscire Medaglie d’Oro Olimpiche. Con straordinaria cortesia il campione si è concesso al mio microfono nel suo studio da dove abbiamo potuto ammirare le piste dove si sono allenati e hanno corso campioni come Pietro Mennea, Sara Simeoni, Serghey Burka arrivando ai recenti medagliati Jacobs, Tamberi e Tortu.
Giampiero Galeazzi: avrei voluto farti parlare di lui a chiusura dell’intervista ma la drammatica notizia odierna, relativa alla sua scomparsa, ci impone di far partire la nostra chiacchierata parlando di questo grande sportivo e grande giornalista.
Purtroppo era nell’aria, con Giampiero c’era un rapporto di grande amicizia e di grande complicità perché prima di essere un giornalista e un telecronista Giampiero è stato un canottiere quindi parlavamo la stessa lingua, conoscevamo gli stessi segreti e ci divertivamo da analizzare il nostro mondo, quello, appunto, del canottaggio. Era nell’aria perché non stava bene già da tempo, ci siamo sentiti pochissimo tempo fa ma con grande fatica perché lui non riusciva granché a parlare e soprattutto ad essere brillante come invece è sempre stato nella sua vita. Detto questo posso dirti che Giampiero Galeazzi per il canottaggio e, più in generale per lo sport italiano, rappresentava un grande raccontatore di storie, di medaglie, di vittorie e direi anche di sconfitte. La cosa bella che lui mi raccontava erano gli aneddoti relativi alle battute che faceva per carpire l’interesse di Gianni Agnelli e “rubargli” un’intervista così come il racconto che riproponeva sempre di quando era entrato nello spogliatoio del Napoli che stava festeggiando lo scudetto e mentre intervistava Maradona ricevette una secchiata di acqua fredda addosso. Giampiero era una forza, riusciva ad entrare negli spogliatoi di tutte le squadre ma non c’erano solo canottaggio e calcio nelle sue corde, lui è stato anche un grande conoscitore ed inviato anche per il tennis. Uomo di club, uomo di circolo è stato pietra miliare dello sport a Roma e socio della Canottieri Roma. Ne aveva di cose da raccontare Giampiero e le ha raccontate! Mi vengono in mente ora, mentre parliamo, le Olimpiadi di Seul, la prima mia vittoria Olimpica. L’unico mio scopo era quello di tornare a terra il più velocemente possibile per sentire la telecronaca di Giampiero, per sentire cosa aveva detto e come lo aveva detto. Noi campioni degli anni ‘80/’90 abbiamo avuto la fortuna di essere raccontati ai telespettatori da lui e le nostre vittorie accompagnate dalle sue telecronache sono icone entrate nel cuore delle persone. Oggi sta girando sui social la telecronaca che lui ci fece nel 1996, la vittoria di Atlanta nel “doppio” con Agostino Abbagnale e quella fu per me l’essenza proprio della telecronaca perché la condotta della gara si prestava alla sua avvincente ed emozionante telecronaca. Giampiero ci mancherà ma noi gli saremo grati per sempre perché lui ha fatto sognare generazioni intere di sportivi ed appassionati.
Dopo il commosso ricordo del grande Giampiero passiamo a Te, Davide. Da quando pratichi sport e cosa ti ha fatto avvicinare al “mondo” del canottaggio e, soprattutto, da bambino giocavi come la maggior parte dei tuoi coetanei a calcio, basket e tennis o eri già attratto dall’acqua?
Allora ti preciso subito, Ercole, se io sono diventato un canottiere lo devo a mio padre e mia madre perché intuirono che poteva essere lo sport per me ideale perché amavo il mare -amo tutt’oggi il mare lo sai-, avevo bisogno di qualcosa di energetico che mi assorbisse tutta la iper vitalità che avevo perché ero un bambino molto vivace e già ad otto, nove anni non riuscivo a stare assolutamente fermo anche per la complicità del fatto che mio padre era un commerciante di legname ed aveva una segheria ed io vivevo tutto il mio pomeriggio extra scolastico in quella segheria quindi salivo, scendevo e facevo molti danni infatti quando ci fu l’occasione di iscrivermi ad un corso sportivo -in terza elementare- i miei genitori mi mandarono velocemente. Poi le due volte alla settimana divennero rapidamente quattro perché oltre a questo corso di avvicinamento, diciamo propedeutico, mia madre mi iscrisse a nuoto e quindi facevo a nove anni ben quattro allenamenti a settimana. Quando iniziai a fare canottaggio nel 1979, gli allenamenti da quattro divennero cinque ed io scoprii che oltre al gozzo di mio padre c’erano le barche per i ragazzi, c’erano le gare dei giochi della gioventù, c’era tutto un circolo “Canottieri Napoli” che mi accolse benissimo e tutto questo l’ho raccontato molto bene nel mio libro, un’autobiografia dal titolo “l’ottimismo della volontà”. Quando ho scoperto questo circolo mi sono innamorato completamente di lui e rispetto ai miei compagni che non capivano questa mia passione perché avevano altri interessi io iniziavo già ad avere degli obiettivi, delle prospettive ed ho cercato di coinvolgerli ma il canottaggio non è per tutti. La fortuna ha anche voluto che Napoli ha una grande tradizione, c’erano delle scuole fantastiche di canottaggio e non parlo solo della Canottieri ma anche del “Reale Yacht Club Savoia” e del “Circolo Nautico Posillipo” che sono clubs che hanno fatto la storia dello sport italiano per quanto riguarda il nuoto, la pallanuoto ed il canottaggio in particolare. Sono quindi subito entrato in questa grande famiglia che era “Canottieri Napoli” e ho trovato un allenatore che mi accoglieva, un allenatore che mi insegnava a remare, un allenatore che mi faceva fare gli esercizi in palestra quindi un ambiente ideale sotto tutti i punti di vista. Ho capito che era la mia strada quando ho iniziato a fare le prime gare, che ho perso regolarmente, però mi piaceva molto e quindi pian piano ho detto a me stesso di fare qualcosa per non arrivare sempre ultimo e così ho iniziato ad impegnarmi sempre più e a fare sempre più sul serio. Non ho mai avuto disagi verso gli altri coetanei perché quando loro occupavano un liceo e se ne stavano buttati a terra in una palestra a perdere tempo, io scappavo a mare ed andavo a remare, fare sport e divertirmi.
A proposito delle tue sconfitte, te li sei andati a cercare quando sei diventato campione del mondo quelli che ti avevano battuto?
Ahahaha no, no ma figurati, sono loro che mi sono venuti a cercare e mi hanno detto che conservavano la foto che avevano con me, come fece per esempio uno di loro che mi batté al fotofinish per il titolo italiano nel 1983. Si tratta di coetanei orgogliosi di aver gareggiato con me da ragazzi e che mi hanno confessato conservano ancora oggi “gli scatti” di allora come si trattasse di reliquie ma anzi ti dirò di più, hanno voluto fare un’altra foto insieme a me a distanza di oltre trent’anni. Il canottaggio è uno sport che unisce ed io devo ringraziare gli atleti che mi hanno battuto perché senza quelle sconfitte non avrei avuto forse gli stimoli giusti per allenarmi sempre più e diventare campione del mondo.
Torniamo un passo indietro, hai detto che sei diventato canottiere per tuo padre e per tua madre ma chi sono invece i professionisti che ti hanno seguìto e fatto diventare quello che sei diventato?
Ok, mi spiego meglio, se mi chiedi grazie a chi sono diventato un canottiere ti rispondo grazie ai miei genitori se invece mi chiedi grazie a chi sono diventato un canottiere professionista ti rispondo grazie al direttore tecnico della Nazionale degli anni ’80 che era Thor Nilsen , un norvegese che era stato ingaggiato da Paolo D’Aloja, un grande dirigente scomparso purtroppo troppo presto. A quattordici anni fui scelto per un college della Federazione Nazionale e da allora iniziai con la squadra Olimpica e non mi fermai più. Mi trasferii a Piediluco in Umbria e feci tanta attività, tanto sport, buttai tanto sudore. Ti racconto una cosa, ascolta qua, nel 1982 remavo da tre anni e l’obiettivo dichiarato per me era quello che nell’arco di dieci anni avrei dovuto vincere la Medaglia Olimpica a Barcellona. Ci sono riuscito in sei anni, si erano sbagliati!
Nel canottaggio, qual è la differenza tra le imbarcazioni del “quattro di coppia” e del “due di coppia”?
Fondamentalmente i remi a testa sono sempre due, ogni vogatore impugna due remi però è la velocità è completamente diversa. Il “doppio” è una barca più lenta, un po’ più elaborata con una remata un po’ più sostanziosa mentre il “quattro” lavora su una velocità inerziale completamente diversa quindi l’accelerazione è molto più drastica, elastica e più potente. Per far capire a chi non è avvezzo al canottaggio, il “doppio” è come correre i “200” e il “quadruplo” è come correre i “100”.
Qual è la differenza tra gli equipaggi con il timoniere ed equipaggi senza?
Bisogna chiarire che quando i vogatori impugnano i due remi il timoniere non c’è mai quindi io ho vinto i mondiali juniores in “singolo” nel 1986 -con questa barca sopra le nostre teste- e quindi è un po’ più complicato perché devi andare dritto tu.
Parlami di questa barca
E’ una barca nata in Germania Est nel 1985 che pesa 14 chili, io ne pesavo 80 e fu fatta su misura per me proprio perché loro sapevano che avrei potuto vincere il mondiale perché altrimenti all’epoca con il Muro di Berlino era vietato ai cantieri tedeschi di vendere attrezzature all’Occidente. Per me fecero un’eccezione che credo sia più unica che rara.
Quale vittoria ti è rimasta più impressa?
Sicuramente quella del ’96 con Agostino Abbagnale nel “doppio” perché la prima Olimpiade del 1988 abbiamo stradominato vincendo con un distacco abissale, eravamo di un’altra categoria. Probabilmente quella barca oggi potrebbe ancora giocarsi una Medaglia alle Olimpiadi pur essendo trascorsi trent’anni. Nel ’96 fu invece molto più dura perché io venivo da un lunghissimo stop e dovetti recuperare in quindici mesi quello che gli altri fanno normalmente in quattro anni e a questo si aggiungeva il fatto che io sono più portato alla velocità che alla resistenza quindi il “doppio” rispetto “il quadruplo” ha quasi 30 secondi di gara in più che per noi vuol dire tanto, sono 100 metri quindi si allunga un po’. E’ stata dura pure perché avevamo dei signori avversari come Norvegia e Francia che non mollavano, c’era un’umidità altissima, erano le undici e trenta di luglio e c’erano 36 gradi, puoi immaginare insomma. Per tutti questi motivi quella vittoria è per me la più sofferta e quindi una delle più belle in assoluto.
Raccontami di quando perdesti la Medaglia d’Oro durante i festeggiamenti.
Rimasi senza parole, mi ero tuffato mantenendola poi si tuffò Agostino che accidentalmente nella gioia mi si buttò addosso e la Medaglia si perse nell’acqua, mi rimase solo il nastrino che la reggeva e puoi immaginare il mio stati d’animo! Chiedemmo subito al Comitato Olimpico se potevo averne un’altra ma cassarono immediatamente e fermamente la richiesta. Ci rivolgemmo allora alla Marina Militare Coreana che si mobilitò con sei sommozzatori/incursori che dopo due giorni la ritrovarono e me la diedero.
Hai rivinto, in quell’istante, una seconda volta.
Eh sì, sì, ero disperato, una grandissima gioia riaverla tra le meni e rimetterla al collo infatti poi nel 1996, quando rivincemmo, prima di buttarmi in acqua a festeggiare la diedi al mio allenatore.
Perché ti sei avvicinato anche al mondo della vela e raccontami della vittoria della Louis Vuitton Cup e della Coppa America in generale.
Guarda questa è una cosa curiosa. Mi sono avvicinato alla vela perché il guardiano del lago di Piediluco, Mario Filipponi, aveva una bellissima barca degli anni Settanta in legno che teneva buttata in giardino. Io la vidi e siccome grazie a mio padre che mi insegnò da bambino a far muovere qualsiasi cosa in acqua (ti dico, Ercole, che sarei in grado di far navigare in acqua anche una tavola “ponte” di un cantiere) istintivamente pensai alla vela e mi iscrissi ad un corso. La domenica pomeriggio poi, quando ero a Piediluco, iniziai a rimettere a posto la barca di Mario insieme a lui e facemmo un po’ come il “Vecchio e il Mare”, io la sistemavo, lui la pittava ed iniziammo ad uscire in mare, ad un certo punto lui che era in età avanzata si stancò ed io proseguii quelle passeggiate in mare da solo imparando da autodidatta. Nel 1989 acquistai un catamarano di circa sei metri e quando finivo con il canottaggio uscivo in barca a fare vela un po’ per divertirmi e un po’ per imparare. Il destino poi volle che in un momento di pausa del canottaggio fui chiamato dal “Moro di Venezia” ed avevano bisogno proprio uno come me che avesse atleticità e che fosse capace di stare in barca. Così andai in America, dove rimasi per un anno e feci un’esperienza che ha segnato professionalmente, sportivamente ed umanamente la mia vita.
Oggi sei Direttore del C.O.N.I. di Formia, dove sei stato mandato per risanare il bilancio. Un Centro Sportivo che ci è invidiato da tutto il mondo e nel quale si sono allenati e formati campioni unici ed inimitabili. In che stato è oggi? Mi riferisco sia all’aspetto sportivo che a quelli infrastrutturale e di bilancio.
Mi definisco fortunato perché oltre a fare lo sportivo io ho anche lavorato con mio padre che mi ha spinto a sapere di tutto e ad impegnarmi in tutto quindi ho visto un po’ del suo lavoro nel commerciale, nella segheria, nell’impresa edile che aveva, nei terreni che coltivavamo e quindi mi sono diviso nella capacità di lavorare nel campo del legno come nei disboscamenti, nell’agricoltura come nella cantieristica. Mi portava con lui e questa capacità che ho acquisito “sul campo” mi è servita anche qui al C.O.N.I. dove abbiamo spesso lavori ed io non ero a digiuno di cantieri, abbiamo 12 ettari di giardini meravigliosi ed io non ero a digiuno di agricoltura e via dicendo. Quanto agli impianti sportivi conosci bene il Centro e sai che sono tutti di prim’ordine.
Quante persone lavorano al Coni?
Sessanta persone, dalla segreteria, alla cucina, alle pulizie, alla manutenzione. Tutte persone splendide e competenti.
Mi hai parlato anche in precedenti nostri incontri dell’eccellenza della cucina.
E certamente, l’atleta vive di carburante e quando l’atleta è sano il carburante è l’alimentazione. A Tokyo noi abbiamo esportato il “modello Formia”, il Presidente Malagò insieme al Segretario Carlo Mornati hanno voluto fortemente il nostro modello a Tokyo per dare supporto in particolare alle squadre di nuoto, atletica e scherma e le Medaglie sono arrivate. Abbiamo immaginato che il cuoco di Formia andasse a Tokyo con gli elementi base della cucina mediterranea ed abbiamo praticamente trasportato la nostra “cucina” lì per un mese. Gli atleti hanno smesso il ritiro qui ed hanno trovato gli stessi volti e le stesse abitudini alimentari lì. Una continuità che si è dimostrata vincente come avevamo immaginato.
Quali sono le sfide future di questo Centro?
Le sfide future sono immediate, quello di diventare il Centro di sviluppo dei giochi del Mediterraneo quindi Formia acquisisce una centralità all’interno del bacino del Mediterraneo che racchiude 26 nazioni ed io sono stato eletto Presidente tre settimane fa e stiamo partendo con dei progetti che vedranno luce fin da gennaio 2022. C’è bisogno di immaginare l’atleta del 2030/2040 e c’è voglia di offrire agli atleti la possibilità di un post carriera. Un lavoro doppio: seguirli da atleti ed inserirli successivamente nel mondo del lavoro come allenatori, dirigenti, organizzatori.
Dimmi degli aggettivi per tre straordinari atleti, Jacobs e Tamberi e Tortu, i cui successi sono stati “costruiti” al C.O.N.I. di Formia.
Allora, Jacobs è razionalità, umiltà e perseveranza, Tamberi è estro, fantasia, simpatia e un po’ di follia, Tortu è velocità e ambizione e sono sicuro ci darà grandissime soddisfazioni nei “200”.
In questi giorni il CONI ospita oltre cento militari di Croce Rossa: porte aperte a uomini e donne con le stellette?
Assolutamente sì. Qui si allenano già carabinieri, finanzieri, poliziotti, guardie penitenziarie, aeronautica, Abbiamo di tutto e di più perché la stragrande maggioranza dei nostri atleti fanno parte di questi Corpi e hanno attitudine al rigore, all’operatività e alla disciplina quindi vedere i militari della Croce Rossa, di cui conosco da tempo la grande professionalità ed operatività, qui nel Centro che dirigo mi inorgoglisce e fa piacere.
Sei anche molto impegnato in progetti che uniscono lo sport a 360° gradi con il benessere ed il sociale (per esempio il progetto “Le Sirene di Ulisse”). Insomma, sei Olimpionico, dirigente sportivo, scrittore, pilota e promotore di eventi sociali. Ma da quali di queste tante vite hai avuto più soddisfazioni?
In tutto quello che faccio mi impegno perché ci credo quindi in ognuna delle cose che hai citato ho messo e metto tutto me stesso. Prima a microfono spento parlavamo delle “Sirene di Ulisse”, beh devo dirti che questa è davvero una grande cosa. E’ un progetto che porto avanti da due anni insieme a ragazzi e ragazze giovanissimi, età media 23 anni grazie anche alla Fondazione “Terzo Pilastro” e al Professore Emmanuele Manuele, persona splendida. E’ un progetto che definisco di “rinascita” perché è rivolto alle donne che hanno combattuto con il tumore, in particolare al seno. Noi le portiamo in barca, le facciamo allenare, le facciamo stare insieme, le portiamo in giro per l’Italia. In particolare ho creato quattro poli, uno qui a Formia/ Scauri, uno a Napoli, uno a Pescara e stiamo aprendo quello di Palermo. Queste meravigliose donne hanno partecipato al campionato italiano a Ravenna di canottaggio con un equipaggio misto quindi metà erano sostenitrici e metà erano donne operate al seno. Il management di questo progetto è tutto al femminile, ci tengo a dirlo. Lo scrittore invece lo faccio dalle quattro e mezza di notte alle sei di mattina prima che si risveglia la mia casa e piloto quando il tempo è buono a Capua. Insomma sono ben organizzato!
Hai mantenuto rapporti con i fratelli Abbagnale?
Con Agostino mi hanno unito due vittorie Olimpiche quindi per me è più un fratello che un amico e a lui sono rimasto molto legato.
Ultima domanda: perché quando pranziamo insieme mi fai servire sempre poca mozzarella? Ti sembra giusto? Vuoi che la metta sul piano fisico?
Perché te fa mal e te vojo fa turnà bell.