Fortunato Torrisi è nato a Melito di Porto Salvo, in provincia di Reggio Calabria, nell’ottobre del 1955, è sposato da oltre quarant’anni con Nicoletta ed è padre di Matteo che a dispetto suo, che ha giocato e allenato la Lazio, tifa Roma. Un metro e ottantatré di altezza per settantanove chili, pacato e simpatico, innamorato del pallone con il quale ha iniziato a giocare all’Oratorio e grazie al quale ha calcato i campi importanti della serie A e delle altre categorie professionistiche. Un fiume in piena Fortunato, che racconta per due ore e con i brividi sulle braccia, i suoi esordi, i suoi amici dentro e fuori dal campo, i campioni con i quali ha giocato insieme e quelli che ha affrontato da avversario, mister e presidenti illustri e le sue esperienze da osservatore e da allenatore. Un fiume in piena Fortunato, che racconta i suoi ventitré goals in serie A e quel memorabile derby della Mole che lo ha reso immortale per i tifosi granata ed inviso a quelli bianconeri. Un fiume in piena Fortunato, che racconta con dovizia di particolari i suoi metodi di allenamento e cosa gli piace insegnare ai suoi allievi, molti dei quali è riuscito a lanciare nel calcio che conta.
A che età hai compreso che il calcio da puro divertimento si stava trasformando nel tuo pane quotidiano?
Intorno ai quindici anni, quando iniziai ad essere chiamato dalla Nazionale giovanile di serie C; giocavo con il Siracusa e i riflettori iniziarono ad accendersi su di me. Venivo dal settore giovanile di Riposto, in provincia di Catania. Intorno ai nove o dieci anni iniziai a divertirmi giocando a pallone all’Oratorio e partecipando -solo se frequentavi la Chiesa e andavi alle preghiere ed io facevo queste cose- ad alcuni tornei nei campi di calciotto di cui la parrocchia disponeva. Entrai poi, insieme a mio fratello che aveva due anni più di me, in una società che stava nascendo in quel periodo, la Peonia calcio. Dopo due anni mio padre, che era finanziere, fu trasferito ad Augusta quale direttore della Dogana e passai a giocare quindi nel settore giovanile del Megara Augusta. Avevo quattordici anni e mezzo e riuscii a fare ben undici partite in quella squadra nella quale militavano calciatori dal Catania, che faceva la serie A, che andavano nel Magara Augusta ad invecchiare e guadagnare gli ultimi spiccioli della loro carriera. Nonostante la presenza di questi grandi calciatori, ricordo per esempio i vari Pulvirenti, Consoli, Condorelli, io riuscii a far bene e ad entrare subito in grande sintonia con loro e diventare addirittura il loro pupillo. Nonostante non avessi raggiunto ancora i quindici e mi fosse dunque impedito dal regolamento di giocare in serie D, la società chiese un’autorizzazione speciale alla Federazione ed io giocai, come ti ho detto, le ultime undici partite di campionato. Iniziai a capire cosa era il calcio professionista, cosa erano i due punti, il punto, la sofferenza, l’agonismo. Maturai tantissimo giocando la parte finale di quel campionato ed ebbi una reazione veloce e molto positiva. Gli osservatori del Siracusa rimasero favorevolmente colpiti dal mio rendimento e durante una partitella dove eravamo stati selezionati anche mio fratello ed io oltre ad altri giovani della zona, dopo dieci minuti fui sostituito e rimasi sorpreso perché ritenevo che stavo giocando bene. E questo ritennero anche quelli del Siracusa, ai quali bastarono solo quei dieci minuti per apprezzare il mio valore e prendermi nelle loro fila. L’anno dopo feci le prime partite con gli allievi del Siracusa poi il mitico Rambone che dal Napoli passò in C a guidare il Siracusa mi fece esordire con la prima squadra in C e giocai una decina di partite. Avevo appena sedici anni! L’anno successivo arrivò come mister, dal Como, Sacchella, che mi segnalò subito a Beltrami che era il direttore sportivo del Como appunto. Mi seguirono spesso quelli del Como e a fine campionato passai con loro in serie A per sostituire Marco Tardelli. Fu per me una splendida avventura, la città del lago, facevo il militare, giocavo in serie A, dormivo in camera con un…certo Paolo Rossi, ragazzo straordinario.
Tu facevi i cross e Pablito segnava?
Ahahah no, no, i cross li facevamo lui ed io per Renato Cappellini, grande calciatore e poi grande mister.
Che tipo era Paolo Rossi?
Te l’ho detto, un ragazzo tranquillissimo, allegro, scattante.
Come ricordi l’esperienza al Como?
Formativa come quella fatta in ogni squadra e in ogni città in cui sono stato. Esordii in serie A battendo tre a zero l’Inter alla prima giornata e giocando una buona partita così come altrettanto positivo fu il mio rendimento nelle successive cinque partite prima di essere costretto a fermarmi per una fortissima e fastidiosissima pubalgia. Non riuscirono a curarmela e a farmela passare allora tornai a Siracusa dove la curai e poi feci rientro a Como dove però non mi fecero più giocare neanche una partita, forse per punizione perché non compresero quanto alto fosse il livello di pubalgia e il motivo per cui andai a curarmi in Sicilia. A fine anno tornai in C proprio al Siracusa ma non mi scoraggiai anzi giocai bene e l’anno successivo andai sempre in C al Chieti dove feci molto bene. Da lì passai in serie B alla Pistoiese di Borgo e di tali Frustalupi e Rognoni. Due fenomeni! Potevo svariare per il campo a mio piacimento e questi due grandissimi giocatori mi proteggevano e sorreggevano. Frustalupi è il più grande calciatore dopo Gianni Rivera che io abbia mai visto su un campo di calcio.
Che caratteristiche aveva Frustalupi?
A trentasette anni da solo reggeva tutto il centrocampo e faceva dei lanci al millimetro, prendeva controtempo tutti gli avversari, anche di soli uno o due decimi di secondo che risultavano però determinanti. Era perfetto in interdizione e straordinario in impostazione e ti lanciava a rete come mai nessuno ho visto fare in cinquant’anni che sto nel calcio. Era inoltre di una umiltà unica e straordinario anche fuori dal campo di calcio. Sono stato davvero fortunato a giocare con questo grandissimo campione e a Pistoia eravamo davvero una bella famiglia: il capitano Borgo, Frustalupi, Rognoni, Bittolo, il mitico portiere Lido Vieri, Saltutti. Tutta bella gente ed io mi rilanciai con loro ed andai all’Ascoli in serie A.
Bella piazza Ascoli, grande il presidente.
Sì, sono stati tre anni bellissimi ed ebbi la fortuna di giocare con uno dei più forti attaccanti italiani, Pietro Anastasi. Trovai come mister il grande G. B. Fabbri che mi chiese se me la sentivo di giocare da tornante perché si erano infortunati i giocatori che occupavano quel ruolo. Mi trovai bene ad Ascoli, bella piazza e gente che di calcio sapeva. Ebbi come allenatore anche Carletto Mazzone e poi c’era il grandissimo presidente Costantino Rozzi, un padre di famiglia per tutti. Voglio raccontarti di Rivera, sai bene Ercole quanto sia legato a lui, quanto gli sia amico oggi e quanto lo stimassi a quei tempi infatti iniziai a giocare da mezzapunta proprio per lui. Durante una partita amichevole prima di inizio campionato contro il Milan arrivò il pallone a centrocampo e feci un movimento e lo disorientai mentre lui mi arrivava alle spalle. A fine partita si complimentò con me dicendomi che avevo talento puro e predicendomi un grande futuro. Per poco non svenni dall’emozione! Fu un periodo brillante ad Ascoli per me, giocai trenta partite sia il primo che il secondo campionato e ben ventinove il terzo anno. Sempre in campo e sempre con un rendimento discretamente buono. A metà del terzo campionato in A con l’Ascoli iniziarono ad interessarsi a me diverse società ma su tutte le più convinte erano il Napoli ed il Torino. Ero ovviamente molto lusingato da tutto questo interesse ma non mi sentivo, diciamo boh come dire, pronto per la piazza del Napoli di Maradona, Careca, Giordano e soprattutto avevo una stima enorme per il grande Torino, per la sua storia e mi ero interessato sempre a quella che fu la grandissima tragedia di Superga per cui scelsi il Torino. Scelsi la storia! Ho rinunciato a soldi e ad una carriera di maggiore visibilità per onorare quella maglia e quella storia. Fui seguito anche dalla Juventus per diverso tempo, non solo ai tempi dell’Ascoli ma anche Ai tempi del Siracusa quindi la città Torino era comunque nel mio destino e poi come sai con Nello Governato ed Enrico Bendoni feci anche molti anni dopo l’osservatore per la Vecchia Signora.
Aspetta, non correre ancora, lo hai fatto tanto in campo. Piccolo passo indietro, che tipo era “er sor Carletto”?
Ahahah, un grande intenditore di calcio ed impareggiabile dal punto di vista umano. Mi infortunai due volte durante la mia permanenza ad Ascoli e lui fu con me disponibilissimo e mi stette molto vicino. Lasciava la squadra al “secondo” e lui si allenava con me, al mio fianco, mi spronava, mi dava affetto e fiducia. Mi ha insegnato a non mollare mai e a combattere sino al fischio finale dell’arbitro. Un grande allenatore e un grandissimo uomo, grintoso, determinato, tosto ma alla fine era ed è ancora oggi un pezzo di pane bianco.
Passiamo al Toro, come ti sei trovato con i granata?
Ottimamente. Sergio Rossi era il presidente, Bersellini l’allenatore, la squadra era fatta di buonissimi giocatori, c’erano Dossena e Selvaggi freschi campioni del Mondo in Spagna, c’erano Terraneo, Zaccarelli, Borghi e Van de Korput e tanti altri buoni calciatori, la tifoseria era semplicemente meravigliosa. Avevo un accordo con un noto, notissimo dirigente, a quel tempo del Toro, che consisteva nella mia accettazione di un ingaggio un po’ più ridotto ma se avessi fatto bene quel campionato e mi avesse richiesto una delle due romane avrei avuto dalla società il lasciapassare perché mia moglie è romana. Feci bene quell’anno e realizzai anche quattro goal bellissimi, due al Cagliari, uno a San Siro all’Inter e quello “storico” alla Juve nel derby della Mole che …non vorrei ricordare proprio a te a tre giorni dal derby di venerdì prossimo ahahah. Comunque io i miei impegni li ho sempre rispettati con tutti ma non tutti i dirigenti, per tornare al discorso di prima, lo hanno fatto con me.
All’Inter segnavi spesso.
Eh sì e sai perché Ercolì? Perché il dirigente era Beltrami che avevo avuto come dirigente al Como e che non aveva creduto alla mia pubalgia che invece era lancinante e dolorosa per cui ogni volta che giocavo contro la sua squadra inevitabilmente sentivo la partita in modo più forte e finivo sempre per fargli goal.
Che atmosfera avvertivi vedendo quel toro all’entrata in campo?
Un’atmosfera che ancora oggi, dopo quarant’anni, non riesco a definire, a spiegare ma che anche adesso che ti parlo mi fà venire i brividi sulle braccia. Quando entravamo in campo e toccavamo quel toro l’adrenalina andava a mille e sprigionava un’energia devastante.
Nonostante l’ottimo campionato con il Toro …niente romane, dove ti spediscono?
Eh già, lasciamo fare che è meglio va. Due giorni dopo quel goal alla Juve e quella vittoria rocambolesca ed epica per come si concretizzò, venni informato da un amico fidatissimo che si stava realizzando il sogno della mia vita e che la Roma mi voleva a tutti i costi. Di questa cosa della quale ebbi subito la certezza della veridicità, ebbi comunque diverse altre conferme anche negli anni successivi. Fatto è che finii al Catania del Presidente Massimino, di Andrea Carnevale e di Pedrinho e Luvanor (fatti prendere dal povero Di Marzio) e persi la Roma, la visibilità internazionale e la possibilità di giocare la coppa dei campioni con i giallorossi. Aggiungo che incrociai a quei tempi in aeroporto mister Bearzot che si complimentò con me e che mi confessò che mi stava tenendo d’occhio. Capisci bene, Ercole, che con tutto il rispetto per il Catania, sempre serie A per carità, splendida città, amici carissimi ma una cosa è giocare con il Catania, appunto, e una cosa, in termini di rendimento, visibilità e guadagni, con la Roma di Falcao e Pruzzo, Conti e Di Bartolomei, Viola e Lieldhom. E poi mia moglie, ripeto, romana. Insomma un bel danno mi fecero anzi … mi fece.
Torniamo al Catania. Come erano Pedrinho e Luvanor?
Perdinho un animale, in senso buono ovviamente, tatticamente intendo. Era un marcatore tosto, coriaceo. Luvanor bel tocco di palla ma evanescente, abbiamo giocato in quel periodo con un giocatore in meno. Poi tre anni dopo ha mostrato in Brasile tutto il suo bagaglio tecnico anche grazie all’esperienza che aveva fatto in Italia.
Ok, andiamo avanti. Nel Catania fai bene e arrivi finalmente a Roma, sponda Lazio.
Eh sì, hai detto bene, finalmente. La Lazio, come poi mi disse Bob Lovati, mi seguiva da tempo e finalmente approdai in maglia biancoazzurra. Restai due anni e poi la Lazio fallì anche. Ero in squadra con Giordano, Manfredonia, Laudrup, D’Amico, Vinazzani, i portieri Cacciatori e Orsi, insomma grandi nomi, grandi giocatori. Il presidente era Chinaglia ed ho avuto tre allenatori in quei campionati, Carosi, Lorenzo e Simoni. Lorenzo molto particolare, girava nelle hall degli alberghi dove eravamo in ritiro con una gigantesca radio anni settanta sulla spalla e canzoni napoletane a tutto volume. Imbarazzante, davvero, credimi Ercole. Con lui non ebbi feeling inizialmente, mi tenne fuori sette, otto partite poi si rese conto che avevo un gran passo e buona tecnica e mi fece sempre giocare. Era però un ambiente particolare e c’era frustrazione in alcuni giocatori, varie correnti interne, uno spogliatoio certamente non idilliaco. Una squadra che poteva competere per lo scudetto con la Juve e tutte le altre grandi e che fece invece soli nove punti nel girone di andata e retrocesse in serie B. Assurdo! Restai con Simoni e ci salvammo nonostante ci furono dati nove punti di penalizzazione per altre questioni a me estranee. Poi arrivano i Calleri come nuova proprietà ed io andai via e terminai la carriera agonistica giocando altri quattro anni in serie C con Ternana e Chieti.
Poi diventi osservatore?
Sì, della prima squadra della Juventus e per due anni della prima squadra della Lazio con Bob Lovati.
Poi diventi allenatore.
E questa è un’altra bella pagina sia umanamente che dal punto di vista professionale. Ho allenato sei squadre e salvato il Catanzaro e l’Acireale. Ho allenato anche la Lodigiani, il Castel di Sangro, il Latina, il Gladiator, il Flaminia C.C. e ho vinto il campionato con il Gaeta del tuo amico Alfonso Morrone. Ovviamente ci sono poi i nove anni meravigliosi in cui ho allenato le giovanili della Lazio arrivando fino alla “primavera” con Felice Pulici ed ottenendo soddisfazioni bellissime e lanciando diversi calciatori nel calcio professionistico.
Gli anni nelle giovanili della Lazio sono quelli in cui ti dedicavi alla tecnica dei ragazzi, a te tanto cara.
Sì, hai còlto nel segno perché mi conosci. Passavo giornate intere a spiegare ai ragazzi a come correre, a come mettere il fisico per un movimento o uno stop, a come calciare il pallone. Nessuno, Ercole, perde tempo ad insegnare ad un ragazzino a come si tira di collo e sai perché? Perché molto spesso non sono in grado di insegnarglielo. I ragazzini tirano tutti di interno, a girare, nessuno gli dice come devi piegare la caviglia. Su trenta ragazzini uno, forse due, sanno come si tira di collo.
Come quel ragazzino che abbiamo visto giocare a piazza Cavour sotto la statua di Camillo Benso mentre il nonno lo guardava?
Bravo! Ricordi perfettamente, hai visto che saetta, che impostazione. Ma tutti gli altri ragazzini non tiravano così ed infatti noi abbiamo notato solo lui.
Hai aperto un’accademia di calcio a Tor di Quinto. Poi il covid te l’ha fatta chiudere.
Un vero peccato, circa ottanta ragazzini che imparavano divertendosi e che si impegnavano tre giorni a settimana. Ero molto soddisfatto di loro, ero carico, mi è sempre piaciuto insegnare ai giovani. Sognavo che tra loro potevano uscire ed arrivare in A altri ragazzi, così come ho visto arrivare tra tanti che ho avuto con me, che so, Domizzi, Pinzi, Berrettoni, Pisano, Concetti. Poi ‘sto cazzo di covid, una tragedia, tanta gente ha perso la vita e tanta altra un lavoro, un sogno, una speranza. Comunque almeno sono riuscito a mandare sei ragazzini tra i professionisti. Ti ho portato una maglietta della mia accademia di calcio così la metti insieme a quelle di Rivera, Zoff, Zola e tutte le altre che hai.
Grazie, grazie di cuore Fortunato.
Beh, dopo quel goal che ti feci nel derby te la dovevo ahahah.
Shhh, fammi il nome, tra i tanti allenatori che hai avuto, di quello che ti è rimasto nel cuore.
Eh no dai, come faccio a farti solo un nome? Dai non puoi farmi questa domanda.
Ok, allora scrivo che non sai rispondere?
Ahahaha dai te ne faccio due su tutti, Fabbri e Mazzone. Il primo mi ha dato un valore aggiunto, quello di velocizzare l’azione, massimo due tocchi e via il pallone, l’altro, Carletto, per avermi dato personalità, temperamento e completezza a livello tattico. Ovviamente non dimentico Bersellini, Riccomini e tutti gli altri.
L’avversario che ti ha messo di più in difficoltà?
Questa pure è bella eh, ne ho incontrati di cagnacci. Diciamo Vierchowod? Lo superavo sempre e alla fine me lo trovavo sempre lì che mi riprendeva. Guarda, ti basta pensare che Di Bartolomei finì a Roma da difensore centrale perché aveva questo mostro di Pietro lì vicino a lui che andava a chiudere tutti gli spazi. Quando io ero ad Ascoli e partivo in velocità ero quasi irresistibile eppure quando giocavo contro il Como c’era Vierchowod sempre lì a rompere le palle. Comunque un golletto glielo feci.
Miglior compagno di squadra?
Il più forte in assoluto con cui ho giocato in squadra è Frustalupi, su tutti, nettamente. Quello con cui è rimasto un legame forte è Roberto Sorrentino, il portiere del Catania, il papà di Stefano che è cresciuto con mio figlio, sono nati entrambi nel 1979. Certo, oltre a Frustalupi posso dirti pure Anastasi.
E Rossi?
E già, pure Pablito, il grande Paolino, pace all’anima sua.
Il presidente dei presidenti?
Che domanda dai Ercole, questa è facile, Costantino Rozzi. Arrivava, ti dava un calcio al sedere se facevi una cazzata e poi tre minuti dopo ti abbracciava e ti portava a prendere il caffè. Con Mazzone formava una coppia fantastica.
Ultima domanda, sarebbe stato più bello per me non fartela ma il giornalista deve prevalere sul tifoso. 27 marzo 1983, ma che ti è saltato in mente?
Ahahah sono cose che capitano nella vita e quindi anche nel calcio. Giocavamo il derby contro la grandissima Juve di Platini e Boniek, di Zoff, Gentile, Cabrini, Scirea, Tardelli, gente che qualche mese prima aveva vinto la coppa del Mondo a Madrid. Eravamo sotto di due reti ma nonostante tutto, sempre per quell’adrenalina che uscendo dal tunnel degli spogliatoi quel toro messo lì davanti al campo ti dà e che prima ti dicevo, non ci demmo per vinti. Dossena suonò la carica, il pubblico fece il resto. In tre minuti e quaranta secondi Beppe, poi Bonesso ed infine io con uno spettacolare tiro al volo in mezza rovesciata ribaltammo la partita e regalammo ai nostri tifosi la vittoria della stracittadina. Un’impresa storica ed unica per la quale a distanza di quarant’anni, ancora oggi, i tifosi granata mi ringraziano e i giornali mi intervistano il giorno prima del derby. Sono entrato con quel goal nella storia di una società che in qualche modo, per la sua storia, avevo preferito al Napoli.
Voglio farmi male, raccontamelo meglio.
Zaccarelli e Galbiati conquistarono il pallone a metà campo mentre io rapidamente salii verso l’area di rigore bianconera che era affollatissima; ci furono tre o quattro passaggi e poi il pallone arrivò a Van de Korput che, ancora oggi non so se lo fece di proposito o meno ma mise in mezzo in modo molto dolce un pallone che era invece difficile, per come gli era arrivato, da gestire. Io mi avventai e in mezza rovesciata feci questo goal capolavoro. Ho sempre pensato che se la palla non avesse picchiato per terra ma fosse arrivata dritta Zoff presumibilmente ci sarebbe arrivato. Lo spunto me lo aveva dato il girone di andata; su un calcio d’angolo per noi Zoff fece una delle parate più belle della sua carriera. In quell’occasione io colpii la palla dal secondo palo da destra incrociando sul primo e lui fece un volo straordinario e con la mano opposta riuscì a negarmi il pareggio. Un po’ l’ho cercato quindi questo goal. Ma sai su cosa voglio far riflettere i lettori? Su fatto che durante gli allenamenti quando gli allenatori a volte ti fanno fare undici contro nessuno, per accentuare i valori e le tecniche che ti insegnano, in tre minuti e quaranta secondi si riesce a malapena, senza nessuno che ti contrasta, a finalizzare un’azione perché basta che sbagli uno stop o un passaggio e devi ripeterla fino a quando non fai la cosa giusta. Ebbene, noi in tre minuti e quanta secondi facemmo tre reti, sotto la nostra curva e a quei fior di campioni, per questo dico che sarà un record quasi impossibile da battere. Guarda ti racconto pure questo aneddoto, mia moglie dalla decima fila arrivò in prima fila a rotoloni perché la curva diventò una bolgia per l’esultanza e avrebbe potuto farsi veramente male.
Venerdì Toro – Juve, inutile chiederti per chi tifi?
Ma guarda io tifo sempre per il calcio. La Juve sta attraversando un periodo un po’ particolare ma resta sempre una potenza straordinaria può avere dei cali ma la Juve resta sempre la Juve. Certo la grinta del Toro è famosa e nel derby quindi può succedere sempre di tutto.
E poi tu sei stato per un anno calciatore del Toro ma per un anno anche osservatore della Juve.
Infatti. Pensa che quando Governato e Bendoni mi portarono da Boniperti e lui mi vide, non ti immagini il gesto che fece il grande Presidente.
Dopo Felix Magath sei il calciatore che mi è più antipatico, risolviamola a braccio di ferro.
Ahahah, va bene, sono d’accordo. Un saluto a tutti coloro che leggeranno questa intervista.