di Ercole FRAGASSO
Ho il privilegio di conoscere da alcuni anni il Direttore Francesco Giorgino, stimato ed apprezzato giornalista e docente universitario e di aver condiviso con lui un corso sulla comunicazione tenuto agli Ufficiali della Croce Rossa Italiana. Proprio in quel contesto, al termine delle lezioni e a microfoni spenti, ci confrontammo su alcune caratteristiche che ci accomunano: l’apprezzamento per le Istituzioni militari, la Juventus e i grandi insegnamenti di don Bosco, il prete dei giovani. Molto garbato ed elegante -sia nello stile sia nell’abbigliamento- molto cordiale e professionale, il Direttore Giorgino si è confessato negli Uffici di Viale Mazzini al mio microfono spaziando, come solo chi ha grande cultura sa fare, dal giornalismo alla filosofia, dallo sport ai social. Direttore dell’Ufficio studi Rai, che ha il compito di analizzare i dossier più importanti che riguardano il presente e il futuro dell’azienda del servizio pubblico della televisione e che pubblica ricerche, studi, analisi guardando in chiave anche comparativa a quello che succede nei mercati europei, nei mercati internazionali e sempre nell’ambito dei cosiddetti PSM (acronimo che sta per public service media, cioè i media del servizio pubblico) è altresì professore di comunicazione e marketing ed ha iniziato ad insegnare nell’ormai lontano 2000, un quarto di secolo fa alla Sapienza Università di Roma e, dopo aver svolto il medesimo incarico per un periodo anche all’Università Lateranense, è approdato nel 2014 alla Luiss ove tuttora insegna. E’ autore di diversi libri in ambito di comunicazione e marketing, gli ultimi sono: Brand Telling (edito da Egea, che è la casa editrice della Bocconi e che è uscito a settembre) e il Manuale di comunicazione e marketing (che è uscito nel mese di novembre per Luiss University Press che è la casa editrice della Luiss) mentre a gennaio sarà pubblicato Sociologia dei Giornalismi (Edito da Mondadori Università). Appassionato di sport, è istruttore di secondo grado di tennis e ricorda con viva emozione i suoi calci al pallone da ragazzino nell’Oratorio di Andria.
Lo scorso novembre è ripartito in seconda serata il programma che ha ideato, coordina e conduce. Mi parli della sigla (“No Man No Cry” di Jimmy Sax) e del titolo del programma (“XXI Secolo, quando il presente diventa futuro”) e concluda scegliendo un aggettivo per entrambi.
Intanto parto dagli aggettivi e No Man No Cry di Jimmy Sax che è sigla coinvolgente ed emozionante. Per quanto riguarda il programma Ventunesimo Secolo, quando il presente diventa futuro, direi che è un programma innovativo. L’aggettivo che vorrei usare per definire questo nuovo programma è innovativo. Allora perché non usare No Man No Cry . Avevo ascoltato per la prima volta questa canzone durante il covid e vidi e presi atto che c’erano diversi contenuti video, audio, video sulle piattaforme social che proprio raccontavano di persone che all’improvviso si mettevano a ballare sui balconi e ascoltando la canzone di Jimmy Sax. Quindi per la prima volta presi atto in quel contesto dell’esistenza di questo brano che, ammetto, fino a quel momento non conoscevo. Tra me e me dissi: se un giorno dovessi mai fare un programma, questo potrebbe essere la sigla del mio programma, cosa che poi si è puntualmente verificato. Quindi è un po’ nato per caso. Poi credo che sia una sigla molto giusta per quel tipo di programma, perché come dice il sottotitolo Quando il presente diventa futuro, quindi Ventunesimo Secolo è un programma dell’approfondimento giornalistico della Rai che si muove nell’ottica di congiungere i tre tempi dell’esperienza umana: passato, presente e futuro. Nel senso che il presente che raccontiamo è il frutto di quello che evidentemente siamo stati, delle nostre radici, della nostra identità. Ma al tempo stesso raccontiamo un presente che viene sviluppato sempre in chiave prospettica, cioè immaginando quelle che poi possono essere le ricadute future.
Passiamo al “contenuto”, il Suo è un programma di “approfondimento” che vuole coniugare “tradizione” (la classica fascia oraria della seconda serata su Rai1) e “innovazione” (con contenuti multimediali sulla piattaforma di RaiPlay).
Esatto, concentriamoci su quelli che sono gli elementi di maggiore innovazione rispetto alla normale programmazione di approfondimento del giorno. Le dico, quando io ho un po’ scritto l’anno scorso per la prima volta la struttura di questo programma, oltre che naturalmente fare quello che dicevo prima, cioè tenere sempre in evidenza la congiunzione diacronica, tra passato, presente e futuro avevo come intenzione quella di coniugare tre linguaggi diversi. Il primo elemento, primo fattore di innovazione rispetto al resto dei programmi è la coniugazione di tre linguaggi diversi, il linguaggio della parola, che è affidata evidentemente al mio editoriale iniziale e che è affidata alla interlocuzione che io ho con ospiti di primo piano del mondo politico, istituzionale, economico nella prima e nella seconda parte. E poi c’è il linguaggio delle immagini, perché noi abbiamo dei mini reportage sempre in ogni puntata, quindi sono praticamente servizi fatti sul posto dai nostri inviati, piuttosto che montaggi di immagini, con una chiave in grado di restituire anche la dinamicità di certi temi. Il terzo linguaggio, che utilizziamo sempre, è quello dei dati che è una novità nel giornalismo televisivo. Perché di solito le infografiche sono sempre state molto utilizzate dalla carta stampata, io invece ho investito molto sul linguaggio dei dati sul data journalism proprio perché credo moltissimo nel racconto fondato sull’evidenza. Sono molto importanti le opinioni, però le opinioni hanno un senso nella misura in cui si sviluppano su dei presupposti di pragmaticità di aderenza alla realtà, che soltanto i dati sono in grado di restituire. L’altra innovazione che riguarda l’edizione di quest’anno è appunto la crossmedialità. Noi siamo riusciti a fare un prodotto veramente crossmediale. Nel senso che visto che il lunedì sera in seconda serata andiamo su Rai Uno, il martedì mattina successivo, già molto presto, diciamo già nelle primissime ore della mattina andiamo in onda con il podcast a Ventunesimo Secolo, quando il presente diventa futuro. Mercoledì, giovedì e venerdì abbiamo tre contenuti originali, quindi, che non sono pezzi di programma pubblicati su Raiplay, ma proprio tre contenuti a sé stanti, autonomi che sviluppano anche temi diversi da quelli della puntata su Rai Uno e che noi presentiamo dentro lo studio, ma facendo molto ricorso ai servizi esterni. E poi abbiamo l’ultimo sabato del mese, il podcast Ventunesimo Secolo celebrities, che raccoglie il meglio delle interviste fatte ai personaggi dello spettacolo durante la puntata su Rai Uno. Adesso però posso annunciare una novità: dal 2025 partiamo anche con un instant-book su Rai libri Ventunesimo Secolo dedicato praticamente a un tema o, ad un insieme di temi, che meritano di essere affrontati e raccontati attraverso anche l’esperienza della lettura. Poi mettiamoci anche i contenuti che pubblichiamo giornalmente sui nostri account social, quindi è davvero un racconto del mondo dell’Italia in chiave orizzontale perché riusciamo ad attraversare un po’ tutti i mezzi di comunicazione, quindi sicuramente c’è tanta innovazione.
Analizzare e capire il presente per “prevedere” il futuro: la struttura narrativa del Suo programma presuppone un giornalismo che non si limita a fare domande, ma che “spiega” e cerca anche le risposte…
Sì, anche questa è un’altra caratteristica del nostro programma. Io mi sono imposto due regole nel momento in cui ho cominciato questa avventura professionale. La prima regola era quella di raccontare anche le cose più complesse, ma in un modo accessibile a tutti. Io credo che sia una esigenza, questa, assolutamente inderogabile. È un’urgenza anche del giornalismo. Non è che ci sono dei temi che sono inaccessibili al pubblico generalista, il problema è come quei temi li affronti, come li riesci sostanzialmente a raccontare. Quindi è una questione di linguaggio. Certamente puoi spiegare anche le cose più complesse in un modo che tutti riescano a capire quello che stai raccontando. Il secondo proposito era quello di non limitarmi a fare le domande classiche del giornalismo, ma andare un po’ oltre. Quindi, per esempio. Non solo dove è accaduto, perché è accaduto come è accaduto. Bensì: chi è il protagonista di quella vicenda che si sta raccontando? Ma anche dove altro può accadere? Cos’altro può accadere? E per quali altri motivi potrebbe accadere? Quello che noi stiamo raccontando, quindi, deve muoversi sul filo delle possibilità, ma anche delle probabilità. Ecco che si ripetono determinati tipi di accadimenti e quindi da questo punto di vista il futuro prossimo è molto presente; non vogliamo fare gli indovini, però vogliamo segnalare i cosiddetti main trends e quindi provare a delineare quelle che sono le più probabili linee di sviluppo delle grandi questioni del secolo.
Nella puntata del 9 dicembre scorso in uno dei “faccia a faccia” del programma ha intervistato Bruno Vespa (che anni or sono Le fece il primo colloquio per entrare in Rai): si può parlare di un “passaggio di consegne” tra i “padroni di casa” della seconda serata della rete ammiraglia Rai?
No, assolutamente no, perché non è un passaggio di consegne in quanto io occupo un pezzo del palinsesto della seconda serata di Raiuno nella giornata del lunedì. Lunga vita professionale a Bruno Vespa, che considero il mio maestro e quindi speriamo che la Rai possa avvalersi ancora per molto tempo del contributo di Bruno Vespa a cinque minuti e in seconda serata. Io sono già molto gratificato nel fare i lunedì sera, peraltro neanche per tutto l’anno.
Per anni ha condotto il TG1 delle 13:30 e poi delle 20:00, entrando nelle case di milioni di italiani nei momenti “sacri” del pranzo e della cena. Un’indubbia gratificazione professionale ma anche una rilevante responsabilità…
È vero, la parola chiave è proprio questa: responsabilità. Io sono molto grato alla Rai per avermi consentito di fare gran parte del mio percorso professionale all’interno del TG Uno. Come è stato ricordato prima, io ho cominciato nel 1991, proprio quando il Direttore era Bruno Vespa e in quella che Bruno Vespa chiamava la nave scuola, che era praticamente Uno Mattina. Ho percorso tutte le tappe. Se sono al TG Uno è perché ho cominciato a Unomattina, poi ho fatto il Redattore della redazione società, poi nella redazione cronaca, poi sono diventato inviato di cronaca, poi sono diventato caposervizio della cronaca e vicecaporedattore della cronaca e cronaca e società insieme. Ad un certo punto sono diventato vicecaporedattore della redazione politica, caporedattore centrale della redazione politica, vicedirettore conduttore. Conduttore delle ore 20 e conduttore di edizioni speciali, anche del TG Uno, quindi, ho davvero fatto tutto il percorso professionale lì dentro, però indubbiamente le conduzioni delle 13 e 30 prima e delle 20 poi sono stati il punto di maggiore impatto rispetto all’opinione pubblica ed effettivamente la parola più giusta è utilizzare la parola responsabilità. Per Max Weber: la responsabilità e la consapevolezza delle conseguenze sugli altri del proprio agire. E in questo caso si tratta di un agire comunicativo nel senso del termine affermato da Jurgen Habermas. Quindi avere la consapevolezza delle conseguenze sugli altri di quello che tu fai in termini di selezione del materiale notiziabile, in termini di trattamento, in termini di intonazione. Io ho provato sempre a ricordarmi di questa accezione della parola responsabilità dataci da Max Weber e quindi sono sempre entrato in punta di piedi nelle case degli italiani, nella consapevolezza che molti potevano essere condizionati positivamente o negativamente da quello che facevo. Poi ho avuto la fortuna di cominciare a lavorare in un’epoca in cui c’erano anche dei giganti del servizio pubblico. Da televisivo, quindi mi sono abbeverato di quella cultura del servizio pubblico che oggi porto avanti anche nei miei nuovi incarichi. Poi ho finito il TG Uno e sono arrivato a Viale Mazzini nella corporate, come vicedirettore della direzione editoriale per l’offerta informativa. E poi sono stato nominato direttore dell’ufficio studi e conduttore del programma. Non sarei quello che sono se non avessi fatto quell’esperienza.
Quali sono le differenze più rilevanti tra il giornalismo del “TG” e il giornalismo di “approfondimento”? E perché ha lasciato il primo per il secondo?
In realtà è stato necessario un avvicendamento professionale. Quindi ho lasciato il TG perché sono stato chiamato a questa nuova responsabilità, prima come vicedirettore della direzione editoriale per l’offerta informativa e poi come direttore dell’ufficio studi, un incarico in totale continuità col mio impegno accademico. L’azienda aveva bisogno di una figura che fosse al tempo stesso di una certa esperienza all’interno dell’azienda, che avesse anche una forte sensibilità accademica. Ed è quello che appunto, avendo fatto altre attività accademiche contemporaneamente al giornalismo, mi riusciva piuttosto naturale fare. Ho condotto speciali serate di approfondimento su tematiche specifiche o addirittura programmi che comunque avevano il passo lungo della diretta televisiva. Nella fascia pomeridiana tantissimi speciali in occasione delle elezioni politiche, delle elezioni amministrative, delle elezioni europee e le americane o raccontato anche fatti di cronaca in prima serata. Vorrei citare in questa in questa intervista, lo speciale che mettemmo in piedi veramente nell’arco di pochissimi minuti sull’incendio alla cattedrale di Parigi, Notre Dame e che è stata anche una grande opportunità. Nazionale. Per non parlare poi degli speciali, che mettevamo anche in quel caso in piedi in pochissimi minuti, sul Covid, durante il periodo della pandemia. C’era già un background di approfondimento. Naturalmente il passo è diverso perché, quando fai un programma come Ventunesimo Secolo, devi pensare a temi e a questioni che sono capaci di sistematizzare tutto di un’asse diacronico medio lungo. Il TG vive della quotidianità, addirittura vive della copertura ora per ora. E quella la principale differenza.
Cosa La entusiasma e cosa La disturba di più della Sua professione?
Mi entusiasma la possibilità di dar sfogo alla curiosità e di mettere a disposizione degli altri delle proprie competenze tematiche. Ci credo molto. Il giornalismo si fonda su parecchie competenze. C’è la competenza tematica, c’è la competenza espressiva, c’è la competenza relazionale, vale a dire la conoscenza dei pubblici, infine la competenza tecnica. C’è la competenza deontologica e questo è garanzia anche della obiettività del giornalismo. Questo mi entusiasma molto, mi disturba talvolta la faziosità. In alcuni casi c’è la mancanza di studio. Ecco, io credo che per essere un buon giornalista serva studiare tanto, proprio perché abbiamo quella responsabilità di cui parlavo prima, cioè, maneggiamo anche cose molto complesse e molto delicate. E senza rinunciare alle proprie idee, perché penso che sia un diritto di ciascuno maturare e manifestare i propri convincimenti all’esterno, però essere sempre rispettoso delle posizioni alternative alla propria. Ecco, quando c’è troppa faziosità, la cosa mi crea un po’ di disagio.
La domanda più scontata: se Francesco Giorgino non avesse fatto il giornalista oggi sarebbe…?
Soltanto un professore universitario, perché io avevo due desideri, due sogni nella vita sono riuscito a realizzarli entrambi, per fortuna ad altissimo livello e quello di fare giornalista, tra l’altro televisivo del servizio pubblico e di Rai Uno; quindi, da questo punto di vista sono stato molto, molto fortunato. E dall’altro lato, però, avendo cominciato a fare l’assistente universitario giovanissimo, proprio appena laureato, ho sempre amato il mondo accademico, credo di avere un mindset anche molto scientifico e quindi diciamo poter fare come sto facendo da 25 anni: contemporaneamente sia il giornalista sia il professore universitario. Lo studioso, è una cosa che mi gratifica, se non avessi fatto il giornalista avrei fatto solo il professore. Universitario.
È un giornalista principalmente “televisivo”, quindi non può sottrarsi ad una domanda sulla “Televisione” in generale. Volendo parafrasare il titolo del Suo programma, è d’accordo su questa definizione: “Televisione: quando il passato diventa futuro”?
Sì, perché la televisione, anche la televisione generalista, è ancora molto forte all’interno del nostro paese; quindi, non è né passato né solo presente, credo e sono convinto di questo che sarà anche futuro. Noi abbiamo le ricerche che lo dicono. Le ricerche del Censis, le ricerche di molti istituti che si occupano del rapporto tra popolazione e media, personal media and mass media ci dicono che il tasso di penetrazione della televisione è ancora altissimo, addirittura superiore al 95% per quanto riguarda il nostro Paese. Chiaramente c’è una componente della popolazione italiana che ha un rapporto diverso con la Televisione. Quale direttore sto studiando le modalità di compimento di questo processo trasformativo della Rai. Da semplice broadcaster a digital media company. Si, di public digital media company, perché questo comporta un’innovazione. Non solo di prodotto, ma anche di processo che vale la pena di essere evidentemente considerata e preservata.
E la televisione?
Già ora viene fruita in modalità diverse rispetto al passato, quindi c’è una componente ancora molto consistente, molto forte di popolazione italiana, che fruisce la televisione in modalità lineare, cioè in modalità sincrona, quindi vede la televisione nel momento in cui la televisione va in onda, vede quel programma nel momento in cui viene trasmesso. Allora poi c’è un’altra fetta, che è sempre più crescente, di popolazione che fruisce il contenuto televisivo, anche editato da televisione generalista, in modalità asincrona. Quindi che vuol dire asincrona? Vede il programma il giorno dopo, dopo alcuni giorni, sulla piattaforma Raiplay e non più in modalità sincronica, ma in modalità che appunto poi rispondente a quel claim. Quando nacque Raiplay si creò un clima: la televisione, quando vuoi, dove vuoi. Poi e con chi vuoi? Poi, in definitiva, perché non c’è più la fruizione contestuale, cioè non c’è più solo la fruizione contestuale in ambito domestico, prevalentemente quindi a casa, ma si vede la televisione sui tablet, si vede sugli smartphone, si vede sui computer, si vede su tanti device mobili; quindi, chiaramente questo pone una sfida nuova, ma la televisione in quanto tutto è industria culturale, in quanto sistema capace di generare e distribuire contenuti, non morirà mai. Deve naturalmente essere al passo con i tempi ed è quello che noi stiamo cercando di fare.
Infine, tre cose ci accomunano: l’Istituzione militare, la Juve ed il nostro caro ed intramontabile Don Bosco.
L’Istituzione militare, nel senso chiariamolo però di grande attenzione da parte mia al ruolo delle Istituzioni del nostro paese. E anche una un’altra delle cose che io sto facendo mantenere fermo il radicamento alla logica istituzionale che, per esempio considero un valore aggiunto, la capacità di switchare tra comunicazioni politiche e comunicazioni istituzionali. C’è un momento in cui deve prevalere la comunicazione istituzionale rispetto alla comunicazione. Mia è da questo punto di vista sicuramente l’attenzione nei confronti delle Forze Armate, le Forze dell’ordine, delle Istituzioni tutte, le Istituzioni politiche, le Istituzioni economiche, le Istituzioni sociali è sicuramente un qualcosa che fa parte della mia cultura. La Juventus? Come tutti i meridionali, come dire, molti meridionali, è un po’ la squadra del cuore. Ecco, Don Bosco invece credo che sia l’elemento che ci accomuni di più e perché io ho avuto un grande privilegio che è quello di essere cresciuto in una città di media dimensione come Andria, che per molti anni è stata è stato il comune non capoluogo di provincia, oggi è capoluogo di provincia. Quindi una città, un centro dove si poteva respirare contemporaneamente l’aspirazione a diventare città e quella dimensione umana che è tipica della provincia italiana; è tra le best practice, diremmo oggi con il linguaggio anglosassone, migliori della mia adolescenza e della mia giovinezza. Sicuramente c’è stata la frequentazione dell’oratorio Salesiano di Andria. Lì ho potuto capire i valori fondanti della cultura salesiana, della cultura di Don Bosco e la capacità di sviluppare quell’approccio direi non solo multi ma anche interdisciplinare. Perché veramente all’oratorio salesiano di facevamo tante cose, ci siamo avvicinati allo sport, che è stata poi il tennis. In realtà io nel calcio, facevo l’arbitro e, per molti anni, nella PGS, la Polisportiva Giovanile Salesiana, celeste gialla. Ho imparato, per esempio, a fare l’arbitro, ho imparato ad applicare le regole, ad avere rispetto delle regole e a vivere anche lo sport dentro una dimensione, diciamo altamente formativa, perché lo sport ha una dimensione che è quella relazionale, che è quella valoriale, che è quella antropologica e che poi ti resta nella vita. Posso raccontare – e poi termino – anche un episodio, a un certo punto fui anche leggermente irregolare. Però l’essere irregolare mi fece comprendere ancor di più il valore di una regola. Perché contestai il Rettore dell’Oratorio che a un certo punto ci costringeva a lasciare la partita di calcio, fischiava anzitempo la fine della partita per andare a Messa. Io mi permisi di dire bonariamente che si poteva organizzare l’attività sportiva in funzione della Messa e senza interrompere. Perché poi quando sei ragazzi, stai giocando a calcio, hai voglia di stare in campo, hai voglia di fare l’attività sportiva. Però poi capii il senso di quella di quella indicazione. Quindi a maggior ragione ho potuto. essere sempre più socializzato a quella cultura e molto nella cultura di Don Bosco. Io ho trovato tante cose che poi ho studiato anche da professore di comunicazione e marketing. Intanto la comunicazione non come semplice connessione, ma come condivisione di senso e di significato. E poi si è abusato nel tempo del termine. Team working? No, lavoro di gruppo che addirittura diciamo è nato come soft skill ma poi è diventata una vera e propria hard skill. Lì si faceva tutto in gruppo e si pregava in gruppo, si giocava in gruppo, si rifletteva in gruppo, quindi, davvero è stata una grande esperienza. Cioè, mettere le proprie individualità a disposizione della logica dell’insieme, la cultura non dell’io, ma la cultura del noi. E da qui nasce anche il concetto di responsabilità, ma da cui nasce anche una corretta interpretazione della categoria della libertà. Perché la libertà individuale esiste nella misura in cui esiste la libertà degli altri, cioè, bisogna riuscire, come dire, a correlarsi al contesto, all’insieme. Il concetto di responsabilità!