Stefano Schiavi: un “paracadutista” del giornalismo

Lo conosco da quando avevamo i calzoncini corti e posso assicurare che tutti gli predicevano un futuro da giornalista o da paracadutista, tanta era la sua passione per i militari e per il giornalismo. Non ricordo di averlo mai visto giocare a pallone, seppur con gli anni ha iniziato a seguire il calcio e a tifare Lazio ma lo ricordo che studiava con passione storia militare e che scriveva con disinvoltura e con piacere. I coetanei impazzivano per Platini e Falcao, Maradona e Chinaglia, lui per Montanelli. Sono felice che nel tempo sia emerso nel giornalismo sino a diventare collaboratore di “Panorama”, della RAI e Capo Redattore de “Il Giornale d’Italia” e che abbia seguito spesso le Forze Armate quale inviato. Oggi ha fondato insieme alla bellissima moglie Micaela, giornalista e crocerossina, “Comunica”, del quale è direttore responsabile e al quale si sono già avvicinati politici di entrambi gli schieramenti. Quando gli chiedo, durante le nostre solite… “scorpacciate di carbonara”, che lavoro gli piacerebbe che facessero i suoi due figli gemelli, Flavio e Gabriele, risponde simpaticamente ”uno il giornalista e l’altro l’Ufficiale”. Tra qualche anno l’ardua risposta.

Cosa ti ha spinto a diventare giornalista e quale consiglio ti senti di dare ad un giovane che vuole intraprendere questa professione?

Quello del giornalista è sempre stato il mio “pallino”. Fin da piccolo avevo questo sogno che sono riuscito a realizzare, pur tra mille difficoltà. Mi ha sempre attirato la vita di un reporter, di un inviato speciale. Il ricercare la notizia, scavare a fondo e far uscire la verità, informare la gente, il lettore, di come stanno effettivamente le cose. Essere sul posto e raccontare le sensazioni, raccogliere gli umori della gente, essere parte integrante di un fatto, questo mi ha spinto a diventare un giornalista.

Consigli a chi vuole intraprendere questa carriera?

Ce ne sono tanti ma quel che mi preme raccomandare è soprattutto l’umiltà e il non pensare di avere la verità in mano senza aver approfondito tutti gli elementi. Essere decisi e caparbi e non accontentarsi senza strafare però, altrimenti si rischia di dare delle non notizie o comunque delle notizie inesatte. E soprattutto, cosa fondamentale, essere se stessi, sempre, senza mollare di fronte alle difficoltà.

Chi è stato il tuo “maestro”?

I miei “maestri” sono due. Il primo in assoluto è stato un collega che ho seguito in alcune delle mie peregrinazioni nelle varie redazioni che ho frequentato. Uno della vecchia scuola, Giuseppe Spezzaferro, per gli amici “Puccio”. Mi ha insegnato tanto e devo a lui se oggi dirigo una testata giornalistica, se ho avuto la possibilità di collaborare con grandi testate nazionali come “Panorama” o essere il Capo redattore a “Il Giornale d’Italia”. L’altro mio “maestro”, soprattutto per quanto riguarda il campo di specializzazione, il settore della politica estera e quello dell’inviato in zone di guerra, è invece il mitico Ennio Remondino. Con lui ho instaurato fin da subito un rapporto di amicizia che è durato nel tempo. I suoi consigli quando ero inviato nei Balcani mi sono stati veramente preziosi. Abbiamo vissuto anche esperienze insieme in Kosovo e spesso ci sentiamo per telefono. Un legame forte, prima da allievo a maestro ora da collega a collega ma soprattutto da amico ad amico. Devo molto ai loro insegnamenti e sarò sempre grato a loro per questo.

Credi che i giornalisti siamo liberi fino in fondo oppure devono rispondere e scrivere in base alle indicazioni degli editori?

Mi piacerebbe dire che sono tutti liberi, purtroppo non è così. Ci sono molti che rispondono alla propria ideologia nel senso più deleterio del termine o comunque alla linea editoriale che segue il giornale di appartenenza anche se non è la propria. Ma questo è comprensibile, tutti “dobbiamo portare a casa la pagnotta”. Altri che pur di rispettare i principi dell’indipendenza e della libertà di informazione si vedono costretti a vivacchiare in piccole redazioni o a fare tutto meno che la professione del giornalista. Per quanto mi riguarda, mi ritengo libero da ogni vincolo, tant’è che quando ho visto cose che non erano in linea con i miei principi o quando mi hanno imposto certe linee che ritenevo errate, ho fatto i bagagli e me ne sono andato. Capisco anche che non tutti possono essere fortunati e trovare una nuova collocazione, quindi non condanno nessuno.

Trovi giusto che sia abolita per i giornalisti la reclusione per il reato di diffamazione?

In linea di principio sì. Ma bisogna anche vedere se nella diffamazione c’è il virus dell’integralismo ideologico-politico. Quello della stampa è un vero potere, il quarto potere”, come bene lo descrisse Orson Welles nel suo celeberrimo film. Dobbiamo stare quindi molto attenti perché con la penna si può distruggere molto facilmente un uomo. È vero pure che ci sono molti tra i politici, gli uomini d’affari, i banchieri e l’atre categorie di professionisti che rilasciano interviste e dichiarazioni che poi puntualmente ritrattano o smentisco cercando di utilizzare la stampa per i propri fini personali. E allora non bisogna cadere nelle provocazioni e registrare sempre tutto. Insomma la via da seguire, come sempre, sta nel mezzo.

Per te un giornalista deve solo “raccontare” ciò che accade o può anche rappresentare le proprie idee politiche, comportamentali, sportive e via dicendo?

Dipende dal tipo di servizio che stai facendo. Se si tratta di cronaca dura e cruda devi essere imparziale, asettico. Se fai un articolo di “colore o costume” anche. Se invece fai un commento, un fondo, un editoriale, va da sé che quello è il tuo pensiero, il tuo modo di vedere la vita e quello che ti circonda, di interpretare i fatti e le vicende. Credo comunque che bisogna essere obiettivi, in ogni caso e mai faziosi. Spesso mi è capitato di criticare quella che considero la mia parte politica. E lo trovo giusto, altrimenti saremmo in un regime. Sullo sportivo credo che l’imparzialità sia d’obbligo anche se in cuor tuo, quando segna la squadra del cuore, non puoi non esultare. Ma lo puoi fare solo in cuor tuo.

Sei stato spesso, quale inviato, in “teatri di guerra”, come giudichi l’operato delle Forze Armate italiane e del personale militare della Croce Rossa Italiana, impiegato in missioni così importanti

Credo fermamente che le nostre Forze Armate non siano come quelle che la gente comune conosce o ha vissuto. È finito il tempo della naja noiosa, del nonnismo di bassa lega, del sopruso dei superiori. Le Forze Armate hanno subìto un forte cambiamento e non da ora. Nei mie viaggi in zone di guerra sono stato spesso al seguito delle truppe italiane nelle operazioni di peace-keeping e mi sono reso conto, perché l’ho visto con i miei occhi, di quanta professionalità ed umanità c’è in questi uomini. Uomini che comunque, è bene sempre rammentarlo, rischiano la vita ogni giorno per la pace e la stabilità di nazioni e popoli spesso distanti dal nostro modo di essere e di pensare. È soprattutto per questo che i nostri ragazzi sono ben voluti in ogni parte del Mondo. Non sono mai arroganti e si fanno in quattro per portare aiuto a chi è stato, ed è, meno fortunato di noi. Lo stesso dicasi per i Corpi Militari della Croce Rossa Italiana. Certo, avendo come moglie una crocerossina (e collega) conosciuta in Kosovo, il mio può sembrare un giudizio di parte, ma vi garantisco che non è così. Ho visto con i miei occhi quello che sono capaci di fare, li ho visti restare in servizio 48 ore di seguito pur di portare aiuto, sostegno e cure ai malati. Di qualunque parte o fazione fossero, li ho visti operare in condizioni disastrate e disastrose senza mai perdere la fiducia, la speranza e soprattutto lo spirito che li anima.

Micaela, tua moglie, come hai detto, è crocerossina e giornalista, come vivresti una sua missione in questi teatri in una o nell’altra veste?

Come le ho sempre vissute e come le vive lei quando parto io: con orgoglio e con paura. Conosco i pericoli della guerra e fare il gradasso dicendo che non esiste la paura è da stupidi. Soprattutto ora che abbiamo due gemelli di 3 anni. Quando hai una famiglia subentrano altri pensieri ed altre necessità. Pensi soprattutto a loro quando sei fuori ma non le direi mai di non andare perché sappiamo tutti e due che sarebbe una forzatura assurda del nostro carattere, del nostro modo di essere, anche se ci rendiamo conto che il nostro è uno sfidare continuamente la sorte, come accadde quando ci fu l’attentato a Nassiriya ai nostri soldati. Io ero in lista per la partenza per l’Iraq con il contingente italiano, dovevo andare per un servizio, ero pronto a partire anche se i miei figli avevano veramente pochi mesi, poi la sorte volle che il volo venisse annullato. Quel tragico giorno dovevo essere a Nassiriya anche io e ringrazio Dio, o la sorte, di non avermi fatto partire. Eppure nessuno dei due ha detto la parola fine sul nostro modo di essere e sul nostro lavoro; certo, ne abbiamo parlato ma mai dalla bocca di mia moglie ho sentito pronunciare parole come “no, non devi andare”. Se Micaela venisse chiamata per partire con la C.R.I. o come inviata, fatte le dovute valutazioni familiari, non avrei nulla da ridire. Non potrei.

Con Stefano nel mio Ufficio

Dove inizia e dove finisce la libertà di stampa?

La libertà di stampa, a mio giudizio, inizia dalla notizia in se. Nel raccontare il fatto, nell’approfondirlo, nel renderla fruibile a tutti. Dove finisce? Bel problema. Di sicuro non deve sconfinare nel privato, nel pettegolezzo, nel gossip, anche se questo piace molto al lettore e agli editori. Scavare nel privato di una persona senza conoscerne tutti i risvolti la trovo una cosa del tutto disdicevole, soprattutto perché il gossip si basa sul chiacchiericcio che il più delle volte non corrisponde alla verità. E la non verità può distruggere un uomo, una donna e la sua famiglia. Insomma, non mi piace “sbattere il mostro in prima pagina” senza essermi accertato che sia realmente un mostro. Ecco, là finisce la libertà di stampa per me.

Credi nell’esistenza dell’Ordine Nazionale dei Giornalisti e della Federazione Nazionale della Stampa?

Sì, credo fermamente in queste due istituzioni. Credo nella necessità dell’Ordine perché ritengo giusto che chi fa questo mestiere debba essere tutelato in quanto professionista (e questo vale anche per i pubblicisti ovviamente) che ha studiato, che ha sudato e spesso sputato l’anima per una professione che ha anche i sui rischi. Non credo sia giusto aprirla a tutti, soprattutto a chi crede che avere un tesserino sia riconducibile esclusivamente ad avere dei privilegi. Credo anche che sia necessaria la Federazione Nazionale della Stampa (sono stato anche io un sindacalista nelle redazioni in cui ho lavorato) perché anche i giornalisti hanno bisogno di difendere il proprio posto ed i propri diritti di lavoratori. Soprattutto adesso che gli editori stanno attuando una politica di “spopolamento delle redazioni” giocando molto sugli stagisti e sul lavoro nero.

La Legge 150/2000 prevede che presso gli uffici stampa operino esclusivamente giornalisti. Credi sia giusto?

Sì. Ritengo che chi lavori in un ufficio stampa debba essere necessariamente un giornalista, professionista o pubblicista che sia, perché anche gli uffici stampa (lo dice la parola stessa) operano nel campo dell’informazione. E se è giusto avere un Ordine dei Giornalisti credo sia corretto che anche chi opera in questo settore ne debba necessariamente far parte. È una questione di professionalità.

Intervista in esclusiva per “Cento Voci” realizzata in data 14.10.2005

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